IL BIM OPERATIVO dal concept al progetto definitivo

IL BIM OPERATIVO dal concept al progetto definitivo

Quando mi è stato chiesto di trovare un bel titolo a questo volume sul BIM hanno cominciato a risuo- narmi in testa titoli squillanti: il BIM dinamico, dal caos al BIM, il BIM sostenibile. Ho iniziato la stesura con un titolo provvisorio, riproponendomi tra una pausa da narratore ed un’altra nelle quotidiane attività professionali, di scegliere tra questi quale sarebbe stato il titolo finale. Arrivato alla fine della stesura mi rendo conto che il miglior titolo resta proprio quello provvisorio “il BIM operativo” perché dice in modo semplice che il miglior BIM possibile è quello che si concretizza, che ha uno scopo, che non è fine a sé stesso; magari è poco altisonante, ma è praticabile. Sostenibile, ordinatore, fluidificante sono e restano aggettivi che hanno senso solo se nel frattempo non si è dovuti ricorrere alle cure mediche o alla consulenza legale per un’attività che non si è potuta sviluppare nei tempi e con i mezzi (tecnologici, professionali ed economici) adeguati. Tutti oggi vo- gliono fare il BIM, ma troppo spesso senza una reale preparazione (“un BIM tanto al chilo, o a richie- sta”), molti dicono di saperlo fare, ma troppo spesso facendo salti nel buio. Il BIM non è tecnologia, ma è metodo: cresce attraverso la conoscenza dei processi della progetta- zione e costruzione, l’esperienza, le giornate passate a trovare soluzioni pratiche, la messa a sistema di tanti piccoli momenti, le letture e i dibattiti, ma diventa operativo solo se si saprà renderlo propor- zionato alle esigenze e alle capacità in campo; perché le regole sono frutto di ragionamenti, perché non c’è una sola strada, formule magiche e strumenti miracolosi, ma tante situazioni differenti da “progettare” per dare gambe e testa ad un processo di produzione reale. Quando ho iniziato questa scrittura avevo in testa due esempi da non riprodurre: un volume di cita- zioni ed esempi lontanissimi dall’oggi, dal contesto socio-geografico italiano, oppure manuali cen- trati su uno o più software; non che questi tipi di pubblicazione non abbiano un valore o non siano importanti, anzi all’opposto, ma perché già c’erano! Farne un altro a cosa sarebbe servito. Ho cercato allora di raccogliere tutte le idee che in questi anni da BIM manager e da docente della materia ho intimamente elaborato, sperimentato, condiviso con i colleghi e poi diffuso nei corsi; con la stessa logica, con lo stesso vizio di provare a trovare soluzioni percorribili. L’intento era quello di fare una pubblicazione che non avesse la presunzione di diventare “il libro del BIM” ma di essere un compagno di avventura di questo tipo di esperienze, tecnico quel tanto che basta a focalizzare le questioni, metodico quanto serve a capire il motivo ed il peso delle scelte e sufficientemente onesto da rimandare ad altre più specifiche letture; un manuale che illustra le ragioni, le scelte e le pratiche che ci sono dentro il processo BIM viste da chi lo esercita. Serviva usare un “casus”, quale? Un esempio della pratica professionale tra quelli seguiti in prima per- sona negli ultimi anni? No, troppo particolare, il BIM di un edificio e quello di un ponte si somigliano solo se visti dietro la giusta lente. Privato o pubblico, veloce o cadenzato, italiano o estero, contin- gente o postumo; troppe opzioni. Verso i “fulgenti esempi di BIM” poi ho una personale diffidenza, sapendo direttamente quanti tra loro in realtà siano solo attività di post-produzione all’effettivo processo progettuale e costruttivo; i modelli “3D” fatti con il dato software di un edificio già abbon- dantemente discusso, risolto, ed approvato su tavole tradizionali sono esercizi di BIM, non processi, almeno per me. Raccontare un’esperienza didattica tra quelle vissute in questi diciotto anni da do- cente e direttore scientifico della formazione dell’Istituto Nazionale di Architettura? No, rischiava di evidenziare la frattura tra pratica e teoria, non perché gli ambiti formativi non siano capaci di propor- re valide sperimentazioni metodologiche, ma perché comunque un ottimo percorso didattico, per quanto laboratoriale, avviene sempre in ambiente protetto, mancano le contraddizioni del contesto reale, gli imprevisti, le ristrettezze contingenti. Pensando all’esempio da utilizzare mi rendevo conto che la questione vera stava proprio nelle “op- posizioni” all’una o all’altra soluzione; perché ognuna vantava un ruolo rispetto al quale l’opposto sembrava meno corretto, dentro una logica che esprimeva un principio di “purezza” a cui si oppo- neva una “deviazione”: netto o lordo, candido o sporco, qual era il BIM che volevo mettere al centro del racconto? Ho avuto modo nella mia vita professionale di misurare direttamente i benefici sulle opere e sulle realtà coinvolte nei processi BIM, per entusiasmo o ingenuità giovanile ho anche cercato di trovare soluzioni ortodosse per la costruzione di processi BIM, ho studiato i casi più eloquenti della sua lette- ratura scientifica, ma alla fine ho capito due cose: pur di fronte a risultati tangibili, i casi perfetti sono occasioni rare e le situazioni imperfette sono molto più diffuse di quanto non si voglia far credere. Anche in alcuni dei casi più famosi, a studiarli bene, si evidenziano delle posizioni borderline tra un processo perfettamente integrato e prassi più tradizionali inserite con alcuni accorgimenti. Ho visto BIM manager di importanti progetti internazionali dover prendere un aereo per arrivare in provincia di Latina e risolvere criticità di collegamento con alcuni stakeholders contrattualizzati, non perché questi ultimi non fossero sufficientemente adeguati al processo, ma semplicemente perché il sistema processuale previsto era imperfetto (nel senso di non adeguato alle realtà produttive coinvolte). Ho visto processi costruttivi BIM fermarsi in cantiere, malgrado le tecnologie coinvolte, per colpa di bug o di misunderstanding nei formati file. Il BIM “puro” richiederebbe soggetti perfettamente conformi al sistema, tempi di sviluppo del processo adeguati ad una sua “esatta” definizione, operatori capaci di assolvere ai molti imprevisti; tutte cose superabili solo se i budget di gestione generale sono real- mente conformi al quadro delle esigenze; tutto questo al netto dei rischi del comportamento umano, perché anche una semplice “superficialità” può alterare questo quadro di limpide certezze. Il BIM allora è un percorso insostenibile? No. Il BIM è la soluzione più logica, non è però salvaguar- dandone l’integrità formale che aumentano le garanzie; un BIM “sporco” ma attuabile permette di raggiungere i risultati più di quello che si alimenta di “formalità” e di “emulazione di casi notevoli”. Il BIM che nasce dall’usabilità quotidiana, che diventa prassi ordinaria, stabilizza progressivamente il sistema ed i suoi utilizzatori. Credo che il rischio sia proprio questo: pensare che il processo BIM sia un “pacchetto di soluzioni” che è sufficiente adottare per aver risultati garantiti, senza un precedente collaudo, un adeguato addestramento, una congruente attività di configurazione. Il caso studio piuttosto che magnificare le possibilità di un sistema per “casi eccezionali”, doveva raccontare l’importanza del ruolo che il processo può avere come sistema di riorganizzazione di tutti i processi costruttivi; perché c’erano già prima del BIM le contraddizioni, le complessità, gli atteggia- menti umani ostativi, ed il BIM come processo organizzato, strutturato e condiviso può realmente riportarli dentro una dinamica governabile: un BIM non estetico, ma operativo. Il BIM per tutti i soggetti attivi nel comparto delle costruzioni non è solo un’opportunità professio- nale, ma un valido supporto per rilanciare l’intero settore in tutte le sue diverse branche: progettisti, costruttori, produttori, ma anche committenti e amministrazioni pubbliche, perché un sistema co- struttivo capace di garantire qualità, sostenibilità e produttività è una risorsa sociale importante. Un processo di empowerment per il settore è urgente e possibile, a patto che l’opportunità di dare “metodo e sistema” agli stakeholders coinvolti venga realmente recepita e non limitata ai soli “casi studio”. La pratica del BIM deve entrare nella professionalità e nell’imprenditorialità di ognuno se vogliamo essere pronti ad un suo corretto ed utile uso, se aspiriamo ad interagire con i mercati in- ternazionali o addirittura “candidarci” alla governance di un esteso processo di riqualificazione del nostro habitat post-industriale, che è un problema mondiale che però per cultura e contingenza un paese come l’Italia può saper coordinare egregiamente. Il BIM internazionale fino ad oggi ha avuto un’attitudine ad essere considerato for constructions sottintendendo spesso new constructutions, il pianeta ha invece piuttosto un’urgenza di re-build, di rigenerazione ed anche al nuovo è richiesta una capacità intrinseca di resilienza. Adeguare al metodo internazionale il nostro sistema Paese equivale a rinunciare a questa opportunità (per altro invece ben intuita dal gruppo di lavoro sulla norma ita- liana sul BIM: la UNI 11337). L’economia del BIM non possiamo individuarla solo nei volumi di spesa (dei grandi progetti), ma nei ritorni di investimento dell’intero settore e soprattutto nella possibilità di trasformare il “peso di un patrimonio vasto” (ambientale, storico, archeologico, industriale) in una risorsa governabile. Concedetemi un paradosso, forse l’unico vero prototipo di sperimentazione elo- quente potrebbe essere la nostra intera nazione. Le cose non avvengono mai per caso. In questi ultimi anni ho avuto l’opportunità, assieme al mio gruppo di lavoro, di entrare a far parte delle società innovative incubate nel sistema Lazio Innova e con il luogo fisico, in cui il centro è collocato, della città di Colleferro; da questa convergenza spazio-temporale è nata l’idea di sperimentazione che abbiamo deciso di utilizzare come caso per questo libro. Non è grande come una nazione, ma è una sua parte costituente importante. Permette di relazionarci ad un sistema che vuole per vocazione collegare il pubblico con il privato, l’esigenza sociale e territoriale con quella imprenditoriale, la struttura con l’infrastruttura, l’ambito della speri- mentazione in vitro con la realtà contingente; non un laboratorio sterile, ma piuttosto un’officina. Tut- to nasce dall’idea di sperimentare per la città di Colleferro un metodo di produzione, comunicazione e gestione digitale del nuovo Masterplan del comune: un BIM territoriale a basso impatto e basato su processi potenziali di co-design. Parallelamente il nostro gruppo di lavoro, assieme agli operatori professionali del centro di incubazione Lazio Innova e grazie al dialogo con gli amministratori del comune, inizia un secondo processo di sperimentazione di rigenerazione urbana dell’area immobi- liare su cui è collocata la sede di Lazio Innova che permetta la valutazione di più protocolli di lavoro, che attivi processi di ingaggio tra le realtà produttive e la città per l’empowerment locale, che cata- lizzi gli interessi per lo sviluppo del territorio, che consenta di proporre alle amministrazioni metodi di gestione e coordinamento basati sull’industria 4.0. Un’ idea, un modello, prototipi sperimentali, sinergie di coordinamento, realtà locali, sostenibilità, finanziabilità, fattibilità, tutte questioni che ap- partengono alle dinamiche attuali delle costruzioni, che sganciano il valore economico dell’opera da una sua conformità ai metodi per una sua corretta costruzione e gestione, permettendo di aprire a tutti i possibili stakeholders l’offerta di acquisizione di competenze e ruoli utili ad espletare secondo un principio di best-practice la loro attività. Questo volume racconta la stessa storia da più punti di vista professionali: il BIM manager, il Coor- dinator, il progettista, il consulente specialista, ma la vera peculiarità è che legge le loro strategie ed attività dietro la lente “dell’utilità ad agire”, che è l’esatto opposto dell’atteggiamento “ad accumu- lare” che spesso fa confondere (o spera di farlo) quantità e qualità. Il BIM è Lean, non può essere una montagna (l’ennesima) di cose da fare; è un processo sottrattivo di prototipazione produttiva e gestionale, deve permettere di prevedere le complessità non diventarne parte. Il BIM in Italia è ormai prossimo al suo battesimo del fuoco, ormai siamo prossimi all’entrata in vigore (1 gennaio 2019) del primo step di obbligatorietà per i progetti pubblici (D.M. n. 560/2017), quelli superiori ai 100 Ml di Euro, poi di anno in anno questa soglia scenderà. Il legislatore avrà immagi- nato che in questo modo il mondo dei professionisti, dei produttori, dei costruttori potrà dotarsi di adeguate competenze e strumenti, ma attenzione a non scambiare le scadenze con l’inizio del proprio percorso di aggiornamento. Iniziare un processo BIM senza una adeguata preparazione può essere davvero rischioso. Non si pensi che la questione riguardi solo i contractors principali oppure che basti acquistare un prodotto software, tutti i soggetti che a diverso titolo vogliano pensare di collaborare in queste attività dovranno essere adeguati ai parametri e ai metodi di lavoro. La que- stione diventa ancora più significativa per le amministrazioni ed i grandi committenti che dovranno strutturare e controllare il processo: in questo caso le competenze organizzative e soprattutto di capacità di definizione del giusto impalcato di regole, che disciplineranno i contratti e gli appalti, saranno determinanti perché i risultati siano “evidentemente” positivi (propulsivi per il settore), me- diamente positivi (già in questo caso capaci di frenare, perché ridurranno le premialità), la negatività non si deve neanche immaginare. Il quadro normativo si aspetta che il nuovo viadotto Morandi di Genova sia in BIM, come anche le nuove stazioni e le nuove infrastrutture di linea dell’alta velocità in fase di appalto, la nuova sede ISTAT di Pietralata a Roma o gli archivi del MIBACT di Brindisi. In realtà, mentre le attese del nuovo codice degli appalti inquadrano solo le grandi opere di prossima assegnazione, ben più ampia è l’aspettativa dei grandi investitori (ESCO, holding finanziarie ed assi- curative) che vogliono vedere in ambiente BIM almeno a partire dalla progettazione esecutiva (anche se già da qualche mese l’interesse si è spostato su quella definitiva) lo sviluppo dell’opera, meglio se con un indirizzamento esplicito al successivo Facility Management, perché la credibilità finanziaria in questo modo cresce, si riduce lo spread sui prestiti e sulle coperture assicurative, aumenta il livello di classificazione di un eventuale protocollo LEED. Il BIM certified vende meglio del non certificato e d’altronde come potrebbe essere diverso da così: l’unico modo di distinguere oggi l’offerta tra “otti- mizzato” e “non” sta nel dimostrarne la filiera, qualcosa che permetta di distinguere un edificio nato bene da uno coperto di pannelli posticci. C’è poi la speranza di un’intera comunità di non continuare a subire un sistema fatto da mille regole eludibili per cui una pila di un cavalcavia autostradale, un tetto condominiale comune o un impianto elettrico di una scuola si auspica siano gestiti attraverso un processo che rende semplice almeno il tracciamento delle attività e la linea delle responsabilità; la certificazione della filiera è una questione di qualità e questo è un valore che prescinde dal costo economico del bene. Devo ringraziare innanzitutto l’editore per questa opportunità, perché mi ha dato modo e spazio per costruire il libro che volevo, l’intero team di produzione del progetto editoriale per l’attenzione e la disponibilità a trasformare in tempi rapidi il progetto in prodotto finale, la direzione di Lazio Innova per la sensibilità ed il supporto a questa stesura, il Comune di Colleferro ed il suo Sindaco per la di- sponibilità ad ascoltare e a sperimentare, ma soprattutto devo ringraziare: Sara, Daniele, Francesca, Tatiana e Chiara efficienti e validi professionisti prima ancora che collaboratori senza i quali molte delle cose raccontate non avrebbero avuto lo stesso valore.

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